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Letteratura

Storia della letteratura italiana

Authors
Rossi

35,00 €

  • publish date November 2008
  • ISBN 978-88-299-1964-2
  • Code Piccin 1817021

PRESENTAZIONE La Storia della letteratura italiana per uso dei Licei di Vittorio Rossi segnò profondamente le generazioni degli studenti italiani dal 1900 – anno in cui a Milano apparve la prima edizione per i tipi di Francesco Vallardi – al 1962, allorché fu pubblicata la ristampa dell’ultima edizione, la sedicesima (1953-56), alla quale pose mano Umberto Bosco, che aveva curato la quattordicesima (1942-43) e la quindicesima (1946) dopo la morte del maestro, avvenuta il 18 gennaio del 1938.

Nessuna storia letteraria italiana ha avuto una simile fortuna, se si eccettua quella di Natalino Sapegno, successore del Rossi nella cattedra romana alla Sapienza dal 1937, che l’anno prima aveva pubblicato a Firenze, per La Nuova Italia, il primo volume del Compendio di storia della letteratura italiana.

Entrambe queste storie letterarie s’imposero per il loro livello di assoluta superiorità su tutte le altre: superiorità che, a mio avviso, esse tuttora mantengono anche sui manuali di oggi. Quella di Sapegno risente della sua impostazione crociano-gramsciana; quella di Rossi è invece d’impianto positivistico-idealista: di un idealismo più gentiliano che crociano.

Vittorio Rossi nacque a Venezia il 3 settembre del 1865, dove compì gli studi liceali.

Quindi si iscrisse all’Università di Padova, da cui nel 1884 si spostò a quella di Torino, dove ebbe maestri Arturo Graf e Rodolfo Renier, suo parente da parte di madre, al quale avrebbe in séguito dedicato la seconda edizione del Quattrocento. Si laureò nel 1886 con una tesi su Battista Guarini e il Pastor fido, che veniva pubblicata in quello stesso anno.

Nel 1887 si spostò a Firenze per perfezionarsi presso l’Istituto Superiore con Adolfo Bartoli e Pio Rajna, che lo orientarono in una direzione maggiormente filologica. Ivi strinse amicizia con Ernesto Giacomo Parodi e con Giuseppe Vandelli. Di quel periodo sono le magistrali edizioni delle Lettere di Andrea Calmo (Torino, Loescher, 1888) e delle Pasquinate inedite di Pietro Aretino ed anonime (Palermo-Torino, Clausen, 1891). Nel frattempo, dopo aver brevemente insegnato nei Licei di Sessa Aurunca e di Palermo, passò all’Universit`a: fu dapprima a Messina (1891), quindi a Pavia (1893), a Padova (1908; dal 1910 ne fu Rettore) e infine a Roma (1913-1936). Tra le molte cariche che ebbe ricordiamo quelle di Presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei (dal 1933) e di Presidente dell’Edizione Nazionale delle Opere del Petrarca (dal 1935).

Il suo influsso sugli studi d’italianistica fu immenso, a testimonianza del suo altissimo profilo di studioso, autore di opere fondamentali che fanno di lui il massimo italianista tra la fine dell’Ottocento e il primo quarantennio del Novecento. Ci`o `e dimostrato da autentici capolavori della storiografia letteraria e della filologia italiana, quali il Quattrocento – la “perla” della Storia letteraria d’Italia per secoli edita da Francesco Vallardi e a tutt’oggi, nonostante altre lodevoli e meno lodevoli intraprese, insuperata per erudizione e dottrina –, uscito in prima edizione nel 1898 e quindi profondamente rinnovato nel 1933; gli Scritti di critica letteraria in tre tomi (i. Saggi e discorsi su Dante; ii. Studi sul Petrarca e sul Rinascimento; iii. Dal Rinascimento al Risorgimento) editi a Firenze da Sansoni nel 1930; la monumentale edizione in quattro volumi delle Familiari del Petrarca (ivi, 1933-42; l’ultimo vol. a cura anche di Umberto Bosco, che si occupò degli ultimi tre libri e allestì gli indici dei nomi), magistrale esercizio di acribia filologica nell’acuta individuazione dei diversi stadi di composizione delle varie lettere; la citata Storia della letteratura italiana; la lucida sintesi Letteratura all’interno della voce Italia nel volume xix dell’Enciclopedia italiana (Roma, Istituto dell’Enciclopedia italiana, 1933); e, da ultimo, il pregevole commento alla Comedìa di Dante interrottosi al canto xxii del Purgatorio per la morte del Rossi (che in vita aveva pubblicato il solo Inferno, Napoli, Perrella, 1923) e proseguito poi dal suo allievo Salvatore Frascino (1899-1969), il quale stampò il commento completo in tre volumi tra il 1941 e il 1948 (Milano-Roma, Dante Alighieri).

La sua opera fu continuata soprattutto dai suoi allievi Umberto Bosco, Siro A. Chimenz e Aurelia Accame Bobbio, tutti docenti presso la Facoltà di Magistero dell’Università La Sapienza di Roma.

Dalla metà degli anni Cinquanta in poi la stella del grande studioso andò sempre più offuscandosi, anche se soprattutto il Quattrocento vallardiano e l’edizione delle Familiari rimasero e rimangono dei punti fermi. Prova ne sia che il suo glorioso Quattrocento – così come il Trecento del Sapegno – non è stato sostituito nella rinnovata Storia letteraria d’Italia della Piccin-Vallardi, ma è stato accuratamente aggiornato da un’attenta e scrupolosa specialista: la compianta Rossella Bessi.

Le ragioni del declino della sua Storia della letteratura italiana sono fondamentalmente due: il ripudio, dopo la fine della seconda guerra mondiale, da parte degli intellettuali, del nazionalismo, per reazione alla stolidità patriottarda del fascismo; e la presa di distanza dall’idealismo gentiliano, anch’essa retaggio delle posizioni antifasciste. Nazionalismo e idealismo gentiliano costituiscono, come abbiamo detto, la base storico-critica del Rossi, oltre, ovviamente, al sano impianto positivistico proprio della scuola storica.

Eppure il nazionalismo di Rossi era qualcosa di alto e di nobile, e nulla aveva a che fare con la crassa volgarità e la belluina violenza tipiche del fascismo. Bisogna sempre tener presente che Vittorio Rossi era, per parte di madre, di origine trentina, e quindi è naturale che si sentisse fin da giovanissimo spontaneamente vicino alle posizioni dell’irredentismo, pur non partecipando mai attivamente alla politica. Inoltre, per reazione al frammentismo estetizzante di Croce, si accostò all’estetica di Gentile – suo collega alla Sapienza dal 1917 e suo stretto amico –, la quale lo portava a vedere l’arte letteraria, e poetica in particolare, quale espressione della vita dello spirito nella sua interezza. Ed è singolare che da una prospettiva affatto diversa, ossia storicistico-marxiana, Antonio Gramsci arrivava acutamente a conclusioni non dissimili nella rivalutazione della struttura della Comedìa contro il frammentismo crociano.

Per chi scrive, invece, uno dei due limiti maggiori della sua visione consiste nei giudizi moralistici che di frequente egli dà di testi erotici o licenziosi, pur se si tratti di capolavori assoluti come il Decameron. Del resto, il Rossi – uomo di austeri costumi, che professava la religione del dovere e quella della patria – era incapace di separare il giudizio estetico da quello morale. Una tale mentalità lo spinge a dedicare poche righe ad un poeta di cui aveva promesso l’edizione, mai portata a compimento, 1 e di cui – pare incredibile – gli sfugge completamente l’alto valore artistico: il Burchiello – massimo poeta realistico dei primi secoli della nostra letteratura –, che viene posposto nella sua valutazione critica ad uno scolorito epigono come il Pistoia. Questo bigottismo – assolutamente sincero e in lui connaturato, in quanto in linea con i tempi, e quindi mai tartufesco – è oggi assai più fastidioso del nazionalismo e della componente idealistica e rende una grande opera come la sua Storia della letteratura italiana un testo datato.

L’altro difetto è pure frutto dei tempi e consiste in una inopportuna innovazione introdotta con l’edizione del 1924-25: il sempre maggior peso dato ai giudizi estetici nella valutazione delle singole opere rispetto alla humus storico-culturale, che – in istridente contrasto con la sua formazione positivistica – viene drasticamente ridotta: per cui molto a torto lo spazio dedicato alla storia della cultura e agli autori cosiddetti “minori” diviene talmente ristretto che la sua trattazione a volte risulta non sufficientemente informata. Pecca gravissima per chi proveniva dalla scuola del Renier, del Bartoli, del Rajna. Infatti è dal più umile sostrato culturale che i cosiddetti “maggiori” traggono la linfa vitale necessaria per isbocciare gagliardamente.

Ad eccezione di queste due pecche, pur gravi, il disegno di Rossi è di una trasparenza stilistica, di una lucidità critica e di una solidità storico-filologica che nessun’altra storia letteraria, 1 Vd. al riguardo il fondamentale contributo di G. Crimi, «L’augurio se lo portò il vento». L’edizione del Burchiello preparata da Vittorio Rossi, in «Letteratura italiana antica», vii, 2006, pp. 355-403.

ad eccezione di quella già citata del Sapegno, possiede. Per cui la lettura in parallelo di entrambe offre il miglior quadro che si possa immaginare. Sia l’una che l’altra discendono, infatti, dal capolavoro del De Sanctis, sia pure utilizzato in maniera dicotomica ed orientato differentemente secondo le rispettive e ben distinte tendenze ideologiche dei due insigni studiosi. Ma il Rossi risente in maniera massiva anche della sua solidissima formazione positivistica, che lo spinse a tradurre in italiano il secondo volume – quello sul Rinascimento (il volume primo sulle Origini era stato tradotto da Nicola Zingarelli) – del capolavoro della storiografia letteraria della scuola storica: la Geschichte der Italienischen Literatur del tedesco Adolf Gaspary (1849-92), di cui uscirono due edizioni per la torinese Loescher: nel 1891 e nel 1900.

Nelle tredici edizioni anteriori a quelle rivedute e aggiornate da Umberto Bosco la struttura della Storia della letteratura italiana del Rossi rimase immutata, a testimonianza della sua validità. Il profondo rinnovamento introdotto dall’ottava (1924-25) non investì, infatti, la struttura, ma lo spirito del libro, che puntava sempre più a rappresentare la letteratura non come un fatto isolato, ma come «una funzione della complessa vita di un popolo» in rapporto alle altre manifestazioni artistico-culturali, e in particolare alla storia dell’arte figurativa.

Fin dalla prima edizione il suo intento fu principalmente quello di presentare la nostra letteratura quale espressione della civiltà italiana. Per il Rossi, dunque, i fenomeni culturali sono una manifestazione della vita dello spirito e solo in essa trovano il loro significato, ma non sono mai disgiungibili dalle condizioni politiche ed economiche della società. In base a tutto ciò, il Rinascimento – il periodo che studiò con maggiore attenzione – è da lui visto come l’affermazione «delle nascenti nazionalità europee in grembo all’unità politico-religiosa medievale.

[...] Questi due concetti che guidano la sua indagine critica sul Rinascimento, della creatività dello spirito e della coscienza nazionale in cui tale creatività storicamente si concreta ed opera come forza determinante della storia moderna, sono del resto quelli che ispirano tutta la sua più matura attività di studioso». 2 A volte, nella sua pur illuminata visione di questo periodo, commette degli errori di fondo, come quando, ad esempio, rifiuta la solidissima tesi burckhardtiana dell’individualismo quale componente essenziale della società rinascimentale; ma nella sostanza le sue pagine sono preziose anche per il lettore di oggi.

Studioso fondamentalmente della letteratura medievale e rinascimentale, il Rossi tuttavia diede importanti contributi anche nel campo della letteratura moderna e addirittura contemporanea, scrivendo pagine acute sul classicismo del Carducci, di cui fu tra i primi a sottolineare, con riferimento alle superbe liriche maremmane, le doti di mirabile ed insuperato paesaggista.

Il rinnovamento portato dall’edizione del 1924-25 fu radicale: molti giudizi furono, infatti, completamente riveduti, come, ad esempio, quelli su Jacopone da Todi, che nelle precedenti edizioni era fortemente limitativo, e sull’arte barocca, vista dapprima come una manifestazione dei tempi corrotti. Vennero inoltre ampliate le parti riguardanti la produzione contemporanea, la cui trattazione investe sino a Corrado Alvaro, mentre del Futurismo si offre una valutazione positiva, a testimonianza di un’attenzione non comune, per un severo filologo di formazione ottocentesca, alle più avanzate esperienze avanguardistiche dell’arte letteraria.

* * * Chi scrive è, come è noto, molto lontano dall’idealismo, sia gentiliano che crociano, ed è invece legato alla scuola positivistica – che pure fu alla base della formazione del Rossi, da cui però si staccò progressivamente, come testimonia l’edizione del 1924-25, nella quale 2 A. Accame Bobbio, Vittorio Rossi, in I Critici, a c. di G. Grana, Milano, Marzorati, 1969, iii, p. 1725 [pp.

1717-36].

prese in parte le distanze da essa, sposando in pieno la dottrina idealistica – e ad una visione della letteratura non come fenomeno dello spirito, ma come riflesso della società, della storia politica, economica e culturale dei tempi, in istrettissimo rapporto con le altre forme d’arte e con la scienza. Perché, dunque, ristampare un manuale scolastico concepito a fine Ottocento e non più pubblicato da circa mezzo secolo, ideologicamente abbastanza lontano dalle posizioni di chi lo ha fermamente voluto rilanciare? Semplicemente perché si tratta del più lucido profilo della nostra storia letteraria assieme, come s’è detto, a quello del Sapegno. Pertanto, riproporlo all’attenzione degli studenti di oggi – beninteso, non di quelli liceali (ahimè, non più in grado di comprenderlo a causa della rovinosa decadenza della scuola italiana, dovuta a leggi sempre più sciaguratamente demagogiche), ma degli universitari – mi sembra quantomai opportuno, specie perché, a mio avviso, i manuali in circolazione sono tutti, quale più e quale meno, insoddisfacenti per varie ragioni e nessuno di essi presenta neppur lontanamente un quadro d’assieme così felice.

E tuttavia chi di questo libro cerchi una riedizione di tipo filologico farà bene a lasciarlo senza indugi sugli scaffali delle librerie. Un’operazione del genere a parer mio non avrebbe avuto alcun senso; sarebbe stata sufficiente una mera ristampa anastatica. Così come non avrebbe avuto senso inserire capitoli sulla letteratura dal 1938 – anno della morte del Rossi – ad oggi. Basta rifarsi, infatti, ai tanti manuali sulla letteratura contemporanea in circolazione, alcuni dei quali – come, ad esempio, quello, eccellente, di Giuliano Manacorda – validi.

Per rimettere in circolazione e far rivivere la Storia del Rossi ho ritenuto indispensabili quattro cose, di cui rivendico la piena responsabilità: eliminare tutti i giudizi moralistici su autori ed opere che avrebbero reso quel manuale obsoleto; colmare le lacune storicoculturali dovute al più marcato orientamento idealistico introdotto a partire dall’edizione del 1924-25 mediante opportune integrazioni (che sono fatte in parentesi quadre per distinguerle dalle parti originali) su autori ed opere non menzionati dal Rossi o perché giudicati “minori” o perché scoperti successivamente (si pensi ai frammenti lirici ravennati, che spostano l’origine della nostra lirica dalla Sicilia alla Romagna); sostituire le vecchie bibliografie, oggi inutili, con delle nuove che tengano conto delle più moderne edizioni dei testi e dei più avanzati studi critici, menzionando però solo i lavori scientificamente più validi ed accreditati senza inutili ingombri; rivedere radicalmente l’interpunzione antiquata ed oggi inadeguata, evitando di separare il soggetto dal verbo con virgole errate, eliminando le virgole nelle relative determinative ecc. Non si è ritenuto invece opportuno, come pure avrebbe desiderato l’editore, ritoccare lo stile dell’autore, sostituendo termini desueti con corrispettivi vocaboli più consoni ai lettori di oggi, perché ciò di fatto avrebbe snaturato l’opera; mi sono limitato a uniformare forme oscillanti (ad es., i vari casi di medio evo, medioevo, Medio evo e Medioevo in Medioevo ecc.) e ad inserire gli accenti con funzione distintiva negli omografi, sia omofoni che non.

La complessa opera di revisione del manuale si deve a Federico Casari da Bondeno, mio strettissimo collaboratore, giovane di peregrina erudizione, il quale ebbe a propormi di rilanciare il testo del Rossi, a lui particolarmente caro. 3 Un ringraziamento particolare al dottor Massimo Piccin, che con grande sensibilità ha compreso le notevoli potenzialità di una simile operazione editoriale e culturale.

Antonio Lanza (Prof. nell’Università dell’Aquila)

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