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Diritto

Studi empirici sulle società di capitali

Autori
Figà Talamanca

35,00 €

  • publish date dicembre 2009
  • ISBN 978-88-299-2045-7
  • Code Piccin 0604850

L’analisi quantitativa dell’esperienza giuridica, in senso debole ed ampio (uffici giudiziari, risorse, reclutamento dei professionisti del diritto, provvedimenti di giustizia ecc.), è un genere praticato da molti e soprattutto da quando l’informatica ha permesso un’elaborazione particolarmente efficace – strabiliante, per il passato - dei dati: l’analisi è sviluppata da istituzioni e da studiosi e, proprio nella variante informatica, si è guadagnata uno statuto epistemologico, grazie alla formazione di un lessico di specialità (in Italia, si possono citare soprattutto i nomi di Frosini e di Losano), e uno spazio tra gli insegnamenti universitari. In questo processo, la finalità conoscitiva si accompagna, spesso, ad un’aspirazione predittiva, al progetto di antivedere gli eventi (soprattutto le decisioni) computando, con l’ausilio inevitabile dell’elaboratore elettronico, i dati empirici registrati. Pur pensabile nel contesto molteplice dell’analisi quantitativa del giuridico, l’opera di Giovanni Figà-Talamanca, della quale qui si dice per propiziarne la lettura, si segnala per un carattere poco o nulla corrente: la realtà scandagliata, a ricercarne le quantità, è articolata tematicamente e i dati quantitativi sono raccolti, ordinati e restituiti al lettore con l’intento di testare la correttezza dei processi di trasformazione (per ora prevalentemente prospettati dalla letteratura giuridica, stante la giovinezza della riforma del diritto societario) che dai testi legislativi portano alla conclusione di diritto (antonomasticamente, al dispositivo di una sentenza) o di rettificarne il percorso se sentito inappagante per la logica giuridica o per l’amministrazione degli interessi coinvolti. Una campionatura dell’opera dia concretezza all’immagine che ho cercato di tracciarne. La novità forse più vistosa della società per azioni “riformata” (della s.p.a. dopo la riforma organica del 2003) è, probabilmente, quella della triade organizzativa messa a disposizione dell’autonomia statutaria: le funzioni di amministrazione, controllo di legalità e vigilanza sono aggiudicabili dallo statuto ai due uffici noti al diritto azionario previgente (Consiglio di amministrazione – o Amministratore unico – e Collegio sindacale); oppure a due uffici collegiali designati con una nomenclatura che cita il diritto azionario tedesco e francese (Comitato di gestione e Consiglio di sorveglianza); o, infine, a due articolazioni di un unico ufficio collegiale, il Consiglio di amministrazione, alcuni dei preposti al quale sono investiti della funzione di vigilanza da esercitarsi, ancora, collegialmente: Comitato per il Controllo sulla gestione). Quale che sia la figura organizzativa prescelta (sistema tradizionale, o latino; dualistico o tedesco; monistico o anglosassone), il controllo contabile è, in principio, “esternalizzato”; mentre la competenza della compagine sociale, deliberante secondo il procedimento assembleare, subisce limitazioni rispetto a quelle che le son proprie secondo il sistema latino, nel caso di opzione per il sistema dualistico, salva diversa scelta statutaria. L’indagine quantitativa depone, da un lato, per la rarità dell’adozione del sistema monistico, rarità che, allo stato, resiste all’affermarsi di un italian way nell’uso di un modello ispirato dall’esperienza anglo-americana; ma che è sufficiente a smentire l’impressione che il confine tra amministratori che compongono il Comitato di Controllo e altri amministratori ripartisca i consiglieri tra “esecutivi” e “non esecutivi”, considerato che è (relativamente al campione limitato del quale si dispone) prevalente il ricorso a deleghe, in assenza delle quali le funzioni di vigilanza e amministrativa rischierebbero di perdere ogni rispettiva specificità (essendo l’amministrazione scandita da decisioni da adottarsi, secondo il rito collegiale, da tutti i consiglieri d’amministrazione). Dall’altro, la stessa indagine orienta ad attribuire, nel sistema dualistico una funzione compositiva della dialettica tra azionisti di riferimento nel Consiglio di sorveglianza delle società ad elevata capitalizzazione; con la conseguenza che questo Consiglio – anche perché prevalentemente dotato, per statuto, di poteri di elaborazione dell’alta strategia imprenditoriale – somiglia molto di più ad un tradizionale Consiglio di Amministrazione che ad un’istanza di controllo di legalità e, appunto, di sorveglianza (cioè di garanzia di sana amministrazione) e che, il Comitato di gestione si atteggia come un tradizionale Comitato esecutivo. La ricerca empirica conferma, insomma, i sospetti di una qualche ipocrisia e di una debole utilità del sistema dualistico, ricavati, l’uno, dalla negata stabilità reale ai preposti al Consiglio di sorveglianza (si sorveglia poco e male se la persistenza del proprio mandato è in potestate del mandante), l’altro, dal fatto che il diritto azionario italiano, diversamente dal tedesco, ignora modalità di partecipazione dei lavoratori agli organi della società che esercita l’impresa alla quale sono addetti e, quindi, non sollecita un’architettura organizzativa che dia un ruolo istituzionale, ma non di governo, agli esponenti di interessi sociologicamente contrapposti a quelli dei portatori del capitale di rischio.

*** La licenziata soppressione del valore nominale delle azioni, che la letteratura giuscommercialistica ha presentato, per lo più, come un fattore di semplificazione delle operazioni sul capitale nominale – rimuovendo il valore nominale delle unità di partecipazione al rapporto sociale come clausola dell’atto costitutivo, l’ammontare del capitale diventa una variabile del tutto indipendente ed il valore delle unità risulta dal rapporto tra capitale nominale e numero statutario delle unità stesse, con conseguente superamento di inconvenienti come quello dei “resti” – si è rivelata, allo scrutinio degli usi, un importante fattore di agevolazione della provvista del capitale di rischio. Benché la nuova libertà statutaria sia poco usata (solo 7 società su 100), l’analisi quantitativa ha accertato che il collocamento di azioni di nuova emissione dotate di valore nominale – per le quali vige il divieto di emissione sotto la pari – può essere seriamente ostacolato qualora il mercato valuti quel prezzo troppo elevato rispetto al valore corrente delle azioni. Soppresso il valore nominale (statutario), il prezzo di emissione può essere fissato ad un livello inferiore alla precedente “parità contabile”, un livello allineato alle stime del mercato, l’unico vincolo consistendo in ciò che il valore globale dei conferimenti non sia inferiore al capitale nominale come risultante dall’aumento. Questa virtuosa funzione è stata significativamente confermata dallo scrutinio delle operazioni di un sotto-campione delle società quotate incluse nel campione perimetrato dall’Autore, scrutinio che ha esibito un collegamento tra aumento del capitale e soppressione del valore nominale. Per contro, più opinabile è che sia un vantaggio, da approvarsi nella prospettiva di un uso non opportunistico del diritto delle società, la idoneità della soppressione del valore nominale a consentire la persistenza del numero statutario delle azioni quando, a seguito di riduzione del capitale nominale per perdite, la coerenza tra valore nominale e capitale ridotto potrebbe essere ripristinata solo attraverso operazioni di raggruppamento – con il probabile inconveniente dei resti. Si potrebbe provare una punta di disagio per la minore leggibilità di un passaggio critico – quello che ha generato perdite – dell’impresa sociale che il congegno in parola provoca, almeno presso osservatori non sufficientemente addestrati.

*** La rivoluzione annunciata dalla riforma del 2003 per la società a responsabilità limitata (riassunta nello slogan “società di persone a responsabilità limitata”) sembra, alla luce dell’indagine su un campione non vastissimo ma non privo di valore indiziario, una rivoluzione mancata. Confermata una correlazione, tutt’altro che nuova, tra ufficio unipersonale di amministrazione e compagine unipersonale – o sostanzialmente unipersonale, come quando la pluripersonalità è cementata da rapporti di parentela; la pluripersonalità dell’ufficio – anche questa, in modo tutt’altro che sorprendente, stimolata dalla relativa ampiezza della base o dalla qualità dei soci (enti, anziché persone fisiche) – si adegua, per lo più, al rito collegiale (l’ufficio è un consiglio) e solo raramente osa l’attribuzione ai preposti di poteri disgiuntivi; nel mentre del tutto ignota sembra una amministrazione pluripersonale congiunta. Ma soprattutto ignoto è il ricorso a modalità amministrative “per persone”, anziché per uffici: qualcosa di simile all’amministratore nominato nell’atto costitutivo – nel senso che all’espressione si può attribuire nell’ottica dell’art. 2259 c.c. – o ad un’amministrazione disgiuntiva di tutti i soci non è de hoc mundo. Che poi la compagine sociale, quando non minima e non omogenea, si riservi decisioni amministrative non sorprende.

Anche sul piano del ricambio della compagine sociale la deriva conclamata verso le società di persone non sembra granché compiuta. Intanto clausole che escludono la circolazione si registrano solo con riguardo al trasferimento mortis causa; compagini blindate con riferimento ad alienazioni volontarie non si conoscono. Per contro diffuse, ma non è una novità, sono le clausole limitative della circolazione – prelazione e gradimento; così come non è una novità che queste clausole non deprimano la propensione a negoziare la partecipazione o la frequenza degli scambi, questa essendo, piuttosto, funzione diretta della vastità della compagine sociale. Notevole è, per contrasto, che l’indagine non abbia registrato nessuna evoluzione statutaria in senso capitalistico della s.r.l. E neppure opzioni dirette a modulare il controllo, ridisegnando il controllo individuale o – dato e dubitativamente concesso che sia possibile – rimpiazzandolo con il controllo d’un ufficio (obbligatorio o non che sia il Collegio Sindacale). Insomma, almeno per il momento, la conservazione sembra aver vinto.

*** Il volume, in conclusione, è un prodotto culturale innovativo e stimolante anche per il giurista che voglia legittimare sempre il suo lavoro nei termini specifici ed esclusivi del diritto, nei termini – dico – delle regole da applicare, dei presupposti d’applicazione, dei destinatari delle regole stesse. E si lascia apprezzare anche come un invito – non declamatorio ma promanante da un esperimento fatto – ad estendere l’analisi quantitativa ad altri terreni, del diritto societario e non (per esempio al diritto dei contratti o, perché no, delle successioni in senso ampio), nella persuasione che la conoscenza dell’uso delle regole ne orienti l’interpretazione, soprattutto una interpretazione funzionale plausibile e mobile in ragione delle congiunture degli interessi e della loro dinamica.

C’è poi un’ultima – ma non per importanza – ragione che fa di questo libro un libro notevole: è il frutto di una collaborazione nella ricerca tra professore e studenti, un evento che – corrente nel mondo universitario anglosassone – è relativamente raro in quello continentale e eccezionale tra cultori e discenti di materie giuridiche. Anche qui stanno innovazione e invito a replicare una modalità che instaura tra ricerca ed insegnamento quella circolarità che dovrebbe essere sempre il connotato proprio degli studi superiori. Roma, 29 marzo 2009 Paolo Spada

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